LA VITA DI UN CAMERAMAN - Capitolo 2 - I LUOGHI CHE NESSUNO CONOSCE

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Lavorare in televisione aveva anche dei vantaggi, non essendoci la giusta ricompensa salariale qualcosa doveva pur attrarre persone come me in questo mondo, imparai molto presto che la fonte di guadagno maggiore che percepivo era vedere e sentire quello che mi proponeva ogni troupe.
Non ho mai capito bene se tutte le persone con le quali ho lavorato, compresa la mia agenzia e come le varie redazioni riuscissero ad apprezzare la bellezza di questo lavoro, ho sempre avuto la netta sensazione che per loro fosse un lavoro come un altro, non c’era contesto assurdo che tenesse, erano davvero poche le persone che riuscivano a stupirsi.
Quando mi chiamarono per riprendere delle rovine antiche non potevo immaginare che queste fossero a 70 metri di profondità sotto Piazza di Spagna nel centro storico per di più allagate quasi completamente.
Quella mattina incontrammo per prima cosa come di consueto il giornalista che ci avrebbe accompagnato e guidato nelle riprese, per poi dirigerci verso il centro storio, per l’appunto a Piazza di Spagna.
Una volta raggiunta la cima della grande scalinata che tutti ben conoscono si unirono a noi degli addetti del comune che, una volta processati i convenevoli ci fecero strada attraverso una porticina sul lato opposto del marciapiede della scalinata.
Dentro questa piccola porta cominciammo già a riprendere con la telecamera, era una stanza antica e molto buia, probabilmente tutto quello che si trovava al di fuori di quella sala doveva essere molto più recente del resto, mi cadeva specialmente l’occhio su un miscuglio di vecchio e nuovo, pareti nuove ma pavimento antico per esempio o quella specie di pozzo che entrando avevo notato subito.
Soffrire di claustrofobia sarebbe stato un grosso limite in quel contesto, bisogna sempre essere pronti ad ogni eventualità, e scoprire che l’entrata di quegli antichi canali fosse situata sul fondo di quel buco non era oggettivamente un piacere di primo acchitto.
Tendenzialmente quando mi alzavo la mattina per andare in troupe, il piacere di fare questo era molto limitato, vuoi la bassissima paga, o gli orari completamente casuali di ogni giorno, ma il risultato era quasi sempre la voglia di andare a lavorare in un ufficio che non ti piace.
Proprio per questa brutta abitudine ogni volta che capitava un servizio diverso dal solito era come cadere dalle nuvole, c’era sempre un preciso momento nel quale realizzavo cosa stavo facendo, ed affacciarmi con la testa dentro quel pozzo, per poi scorgere una scalinata a chiocciola senza apparente fine divenne la mia “caduta”.
Ci fecero indossare sopra ai nostri abiti una grossa tuta impermeabile fatta a salopette, molto simile a quelle che si usano per pescare immagino, poi dei guanti molto spessi e per finire un cappellino giallo di protezione con la luce davanti.
Ora il punto è questo, io non so nuotare, e non amo particolarmente l’acqua non avendo dimestichezza dentro di questa, trovarmi vestito in quel modo non fu il massimo della gioia, collegarlo poi a quella profonda scala dava al tutto un lieve strato di panico che ero costretto a gestire per lavoro.


La discesa sotto il suolo di Roma non fu breve, ci mettemmo almeno 20 minuti per arrivare sul fondo, bisognava scendere con molta cautela anche perché in diverse parti di questo tunnel verticale erano situate altre gallerie, che dio sa solo dove conducessero.
Arrivati sul fondo sicuramente la prima cosa che si poteva notare era la completa assenza di luce, la scala terminava direttamente nell’acqua che, una volta immersi arrivava pelo pelo al bordo della salopette, questo sicuramente nella mia testa generava già un campanello di allarme.
All’improvviso si accesero due file di luci artificiali parallele che scorrevano lungo i due lati di quel profondo tunnel, come nei film di fantascienza le luci si accesero due a due illuminando lentamente la galleria come fosse un hangar missilistico.
Ovviamente già in registrazione con la telecamera notammo quanto l’acqua nella quale eravamo immersi fosse limpida, potevi vedere ogni sasso sul fondale e la paura di calpestare qualcosa di antico e prezioso era tanta, anche se personalmente avevo più paura di scivolare e finire con la testa dentro questa.
Cominciammo a girare il servizio vero e proprio, dove il giornalista davanti a noi, guadando lentamente il canale e rivolgendosi alla telecamera, raccontava cosa fosse quel posto coadiuvato dall’esperto del comune che confermava o smentiva le sue affermazioni.
Oltre essere molto bello trovarsi in quel posto così assurdo, amavo ascoltare i racconti del mio collega, si poteva definire una lezione di storia alternativa, con esperienza sul campo pagata volendo vedere il bicchiere mezzo pieno.
Imparai così che l’acqua di quel canale era la stessa che sgorgava dalla famosa Fontana di Trevi, e che quel lungo tunnel senza fine, collegava il nostro punto di partenza alla famosa fontana alimentandola costantemente.
Tanto era lo stupore che la concentrazione certe volte vacillava, in uno di questi momenti sentimmo un PLOF sordo e profondo, istantaneamente ci guardammo io ed il mio collega con lo sguardo di chi sa bene o male cosa è appena accaduto, era caduta la batteria della telecamera nell’acqua.
Ora so bene che queste cose non dovrebbero succedere, ci sono vari sistemi di sicurezza che impediscono a questa di staccarsi così facilmente, ma che dire, tutti possono sbagliare la prima volta.
Vedendo l’agitazione del responsabile all’accaduto il mio collega non ci pensò due volte e si tuffò sul fondo per raccoglierla, il timore principale era contaminare dell’acqua decisamente pulita e presumo molto controllata e personalmente non avrei assolutamente fatto nulla del genere tranne se non avessi dovuto salvarmi la vita.
Alla fine la batteria ormai da buttare riuscì a recuperarla e la situazione tornò sotto controllo in poco tempo, tanto che tutti ci lanciammo in una sonora risata di sfogo, complice l’avere con noi altre due batterie di riserva, perché se c’è una cosa che devi imparare subito in questo lavoro è che le batterie non bastano mai, bisogna sempre averne più di quante servano realmente.
Camminammo davvero molto dentro quelle profondità, se non ricordo male almeno due ore le passammo li dentro tra l’andare ed il tornare, era praticamente impossibile poter percorrere tutto il tragitto fino in fondo, troppe diramazioni e troppa fatica guadare tutto lentamente.
Arrivammo giusto ad un immenso salone dove convogliavano altre gallerie sempre allagate e dove, l’acqua di questi si canalizzava come in una fogna dei classici film americani, lasciandomi dentro un gran senso di terrore vista l’incapacità di saper nuotare e l’imponenza di quel flusso d’acqua costante.


Come ho ripetuto più volte la paura in queste situazioni c’era sempre, ma non è mai stata un problema per lo svolgimento del mio lavoro, ho sempre fatto buon viso a cattivo gioco alla maggior parte delle situazioni nelle quali mi sono trovato, e molte volte nella vita mi sono reso conto che la maggior parte dei momenti nei quali si prova questa sensazione sono attimi di vita vissuta più intensamente, che una volta conclusi ti regalano un bagaglio che si va a sommare con le esperienze utili alla nostra crescita.


Il nostro bel paese è ricolmo di piccoli paesini antichi e poco abitati, che almeno una volta ognuno di noi o quasi ha visitato per curiosità e divertimento, percependo la bellezza della vita semplice lontano dalle città.
Occasioni del genere con il mio lavoro capitavano spesso durante l’anno, venivamo catapultati dentro le vite di persone altrimenti impossibile da incontrare e le esperienze in un modo o nell’altro finivano sempre per accrescerci.
Per citarne una delle più significative, ricordo molto bene quella volta che ci mandarono in un paesino nella provincia di Campobasso chiamato Portocannone, dove vivevano poco più di duemila abitanti ad un’altitudine di circa 500 metri.
Considerando che da Roma erano circa sei ore di viaggio partimmo già scoraggiati e senza aspettative, la paga tanto era sempre uguale ovunque si fosse andati e la mole di ore di lavoro sarebbe stata anche questa volta disumana, sfiorando le 15 ore di fila tra andata lavoro e ritorno.
Partimmo da Roma verso le sette di mattina ed arrivammo in questa piccola realtà verso l’ora di pranzo, l’obiettivo era raccogliere opinioni e racconti dei locali, essendoci stato un omicidio che aveva coinvolto una giovane ragazza di quelle parti.
Ci sono sempre due tipi di persone in questo genere di luoghi, i curiosi ed amichevoli ed i più cauti e sospettosi, in questo caso i secondi la facevano da padrone al nostro arrivo, principe di tutte le reazioni che li accomunano, spiarci da dietro le finestre scostando semplicemente le tende.
Le prime ore furono un buco nell’acqua, ricordo bene che nemmeno il parroco del paese volle farci entrare dentro la sua chiesa e diverse persone incrociandoci per strada ci intimavano di andarcene arrivando anche ad insultarci, era davvero difficile considerare affascinante un lavoro del genere, dove il prossimo è pronto a giudicarti, condannarti ed insultarti qualsiasi cosa tu faccia o dica.
Per fortuna per una specie di magia, dopo che passi qualche ora dentro questi piccoli ecosistemi cominciano a palesarsi le persone più socievoli ed utili, non si capisce bene come mai succeda sempre dopo un po’ di tempo, forse complice il timore o la semplice coincidenza ma i racconti e pareri cominciarono ad arrivare e prima fra tutti fu l’anziana del paese che ci raccontò il suo punto di vista sull’accaduto ed ovviamente tanti altri aneddoti personali su la sua vita.
Le ore continuavano a passare e noi entravamo sempre più nel tessuto sociale del paese, ora camminando per strada ci rivolgevano la parola per salutarci, ci chiedevano come stava andando il lavoro e certe volte ci accompagnavano per alcuni tratti, incuriositi dalle nostre apparecchiature.
Le macchine che avevamo in dotazione erano un po’ differenti dal solito setup che si usa in città, la differenza principale oltre una telecamera più piccola e maneggevole era il famoso Zainetto per le dirette tv, questo mortale (per noi) attrezzo ci permetteva di collegarci con la stazione centrale di Milano che avrebbe in seguito rimbalzato il nostro segnale a Roma dove, previo annuncio del giornalista di turno in televisione, sarebbe finito praticamente in diretta nelle case di tutti gli italiani.
Il problema principale di questi Zainetti era la loro dannosità in quanto cancerogeni per le radiazioni di trasmissione emesse, e per far si che funzionasse al meglio bisognava tenerlo vicino a se per poter monitorare e regolare il segnale emesso.
Non ho mai amato questo genere di oggetti, i cameraman più anziani ci raccontavano sempre di come in passato loro colleghi in determinati eventi sportivi usassero attrezzature simili e di come queste con il passare degli anni avesse causato loro tumori di vario genere.
Come sempre il livello di protezione che ci veniva offerto era più infimo della povera gente, l’importante era il servizio, le immagini e le dichiarazioni dei coinvolti e come sempre a distanza di 24 ore chiunque avrebbe già dimenticato tutta la faccenda.


Il pomeriggio cominciava a passare e con l’arrivo della sera si avvicinava il momento della nostra diretta dalla piazza centrale del paese, la fame era molta vista l’assenza di un pasto decente ed il morale vacillava tra il ricordo del viaggio di ritorno e l’inutilità del nostro lavoro in quel posto.
Vagando per le viuzze del paese ci si aprì una grossa porta di legno nel mezzo della via che stavamo percorrendo, ed un grosso signore di mezza età ci fece cenno con la mano per farci avvicinare e disse “Siete la televisione di Roma vero? Avete fame? Entrate pure”.
Presi alla sprovvista ma affamati e stanchi non ci facemmo ripetere due volte l’invito ed entrammo dentro questo grosso casolare con una lunga tavolata apparecchiata, molte erano le persone impegnate ad organizzare per bene la cena, c’era chi portava pietanze in tavola, chi le cucinava e chi metteva in ordine per far si che ci fosse posto per tutti, essendo a quanto pareva una circostanza particolare.
Era la cena per gli organizzatori della festa del paese, c’erano tantissime persone di ogni età e tutti davano l’impressione di essere amici stretti se non addirittura famigliari, c’era un clima leggero e rilassante, ed anche noi lentamente ci lasciamo andare vista la loro ospitalità.
Ci offrirono tante cose buone da mangiare tutte logicamente con ingredienti del posto, ed anche il vino non mancava di certo anzi, dovevi stare attento a non finire subito il bicchiere o qualcuno vedendolo te lo avrebbe riempito, ed il vino proposto sfiorava paurosamente i 18 gradi.
La semplicità e cordialità di quelle persone ci ricaricò più del buonissimo cibo che ci offrirono, erano quelli i momenti che ti facevano rimanere a lavorare in televisione per i telegiornali, erano tutti interessati alle nostre vite, alle nostre storie ed altrettanto lo eravamo noi delle loro e dei loro insegnamenti, come per esempio il trucco per versare il vino dal boccione con soltanto il pollice della mano destra, o quei detti di paese che non si possono quasi mai dire ad alta voce se non si vuol far una brutta figura.
Il tempo scorreva molto velocemente essendo tutto estremamente piacevole e la notte non tardò ad arrivare, con questa anche l’ora della nostra diretta, l’ultimo motivo che ci teneva ancora legati a quel piccolo paesino.
Ci spostammo nella piazza principale del paese dove avevamo appuntamento con il sindaco per un piccolo scambio di domande e risposte inerente alla ragazza uccisa, e mentre aspettavamo che arrivasse il primo cittadino e che ci fosse dato l’ok dalla centrale montammo tutto il necessario per essere efficienti al 100%, cavalletto, telecamera professionale (quindi grande quanto un bambino di 6-7 anni e probabilmente anche più pesante), le luci, configurammo lo zainetto e posizionammo nel punto prestabilito la giornalista con il microfono e delle cuffiette collegate ad un cellulare per poter sentire i commenti a caldo dallo studio.
Tutto era pronto, compresa la presenza del sindaco quando in lontananza partì il suono di una tromba, inizialmente completamente fuori luogo ma dopo qualche istante altri strumenti si unirono a questa, era la banda del paese.
La diretta era già iniziata e non potevamo fare assolutamente nulla se non subire l’evento tra l’altro non segnalato dal sindaco del paese, e noi ignari di questa festa che si svolgeva ogni anno fummo praticamente travolti dalla banda per intero che cominciò a passarci davanti e dietro la telecamera.
La giornalista era completamente nel pallone, dallo studio non sapevano cosa fare e non riuscivamo nemmeno a sentire le direttive essendoci un tale casino che sovrastava qualsiasi altro suono, l’atmosfera era oltre il grottesco visto l’argomento molto pesante e sicuramente non piacevole e la musica suonata da festa di paese era decisamente la ciliegina su la torta.
Ci fu tolta la diretta con lo studio quando la giornalista scoppiò a piangere e nel mentre noi a ridere, una delle due reazioni era obbligatoria ed il viaggio di ritorno, di notte, della durata di 5 ore divenne un problema molto più sopportabile, nonostante l’inumanità della redazione che non volle nemmeno pagarci il pernottamento, ma questa è un’altra storia e non mi va di rovinarmi un ricordo così bello per colpa di qualcuno che probabilmente non ha mai vissuto le mie esperienze.


Allego alcune foto scattate nel sottosuolo di roma, sono un po' datate ma rendono perfettamente l'idea

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