[Recensione Film] Noah

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Interpretare e ‘rileggere’ la Bibbia è sempre un affare pericoloso, anche per un esperto esegeta. Se a farlo poi è un regista di cinema, allora l’argomento diventa decisamente pericoloso. Aronofsky, però, non è di quelli alle prime armi. Per ridurre le percentuali di rischio, non solo ‘schiera’ un cast tecnico e artistico i cui componenti hanno quasi tutti in comune un riconoscimento o una nomination della Academy, ma sceglie – saggiamente – di raccontare il dissidio tutto umano di Noè, piuttosto che limitarsi a presentarci la corresponsabilità del patriarca biblico nella Divina Alleanza.

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Il Noah di Aronofsky è un guerriero fedele e un combattente leale, ma al tempo stesso, è un uomo ‘moderno’ nella misura in cui dubita della sua incorruttibilità e della sua giustezza. È interessante che il regista non faccia mai ‘parlare’ Dio se non per mezzo delle immagini oniriche di Noè: questa scelta la dice lunga sulla dimensione tutta umana del tema del film. Evidentemente, anche a causa di questa complessa decodificazione delle sue visioni, Noè sovrainterpreterà il volere divino negando a se stesso e alla sua famiglia la salvezza in quanto Uomini per definizione e perciò colpevoli.

Un destino a cui non riuscirà a tener fede per eccessivo amore. Il fallimento lo spingerà ulteriormente nel baratro dell’inquietudine, allontanandolo dalla moglie e dai figli e dai quali tornerà solo dopo aver accettato e metabolizzato il loro perdono. Al di là delle licenza poetiche che indubbiamente la sceneggiatura si concede, sicuramente da spettatori (e da uomini di questo tempo) è più facile immedesimarsi nel Noah di Aronofsky rispetto all’’eroe’ solitario, integerrimo e quindi distante, delle Scritture.

Ciecamente investiti di questo arduo compito, noi cosa avremmo fatto? Durante il film, per un istante almeno, viene da chiederselo. Ma non è qui che il regista vuole andare a parare. Non è casuale la scelta di voler raccontare proprio del diluvio universale, oggi. Il contrasto psicologico di Noè non ci racconta solo dell’uomo ma di tutta l’Umanità, di tutto il male perpetrato nei millenni, dei tanti ‘Caino’ e degli ancor più numerosi ‘Abele’. Delle vittime, dei carnefici e di come poi i carnefici siano vittime di una violenza più grande.

Ad Aronosky basta un’immagine (bellissima e molto significativa) per dirci tutto questo: nel braccio sollevato di Caino che sta per colpire Abele riecheggiano tutte le immagini di morte di tutte le guerre e di tutte le violenze, da quel tempo ad oggi. Entra qui in ballo un altro importantissimo livello narrativo del film, quello della fotografia. Matthew Libatique ci offre immagini dense e dall’impatto poetico così forte, che non hanno bisogno di essere accompagnate dal parlato per arrivare allo spettatore. Laddove il ‘visivo’ lascia spazio al ‘sonoro’, ci pensano, da una parte, l’eccellente lavoro degli interpreti, capaci di farci vedere e sentire tutta l’intimità delle relazioni dei personaggi, e dall’altra la delicata solennità delle musiche di Clint Mansell.

L’abilità e il talento di Aronofsky fanno sì che nessun particolare venga affidato al caso. Ne vien fuori, perciò, un racconto cinematografico accuratissimo, raffinato, elegante e, comunque, di forte impatto emotivo oltre che visivo.



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2 comments
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E' un film che mi aveva incuriosito quando uscì ma non l'ho ancora visto
Grazie della recensione @claudio83

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Te lo consiglio, è un po' lungo ma vale la pena guardarlo 🧐

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