Sono libero!
Dopo otto lunghi anni dentro una prigione, questa mattina, alle sette in punto, sono venuti a prendermi, mi hanno fatto firmare dei documenti, mi hanno ridato i miei effetti personali e mi hanno sbattuto fuori da questo inferno, con la stessa delicatezza con cui mi ci avevano rinchiuso otto anni fa.
Il primo impatto non è stato quello che pensavo, l’aria puzza anche qua fuori, esattamente come dentro... forse anche di più.
I primi anni di galera sono stati duri, poi, piano piano, ci si fa l’abitudine. Gli uomini hanno questa incredibile capacità, si abituano a qualunque cosa, anche alla vita del carcere.
Sarà per questo che la certezza che tra pochi giorni tornerò dentro non mi fa né caldo né freddo, ora l’unica cosa importante è rimettere le cose a posto e tornare dentro, questa la prenderò come una vacanza premio, a patto di fare quello che va fatto.
Ho bisogno solo di qualche giorno, devo riprendere le misure con l’esterno, organizzare il tutto, agire e poi tornerò nella mia cella, dove passerò il resto della mia vita, con questo mezzo sorriso che ora mi sta nascendo sulle labbra.
Io la chiamo giustizia, e si sa che la giustizia è lenta ma inesorabile.

Ci eravamo lasciati di comune accordo, una storia finita, esaurita.
Era successo ormai da diversi mesi, forse cinque, forse sei, ora non ricordo, sono passati quasi vent’anni da allora.
Piano piano però a me era presa come un’ansia, come una malattia che mi rodeva dal di dentro: non ce la facevo a stare senza di lei.
Una sera cominciai ad aspettarla davanti a casa sua, aspettavo che rientrasse dal lavoro, a volte la seguivo senza parlare, a volte le bloccavo un braccio, “Ciao...” “Cosa vuoi Marco, lo sai che è una storia finita, l’abbiamo deciso insieme, giusto?”
All’inizio rispondevo di sì e me ne andavo, per qualche giorno ero tranquillo.
Poi risaliva quella sensazione di fiato che non ce la fa ad entrare nei polmoni e quando è dentro non ce la fa più ad uscire e tornavo sotto casa sua.
Passò poco tempo e le sue reazioni divennero sempre più stizzite, sempre più esasperate.
“Cosa vuoi ancora, te ne devi andare.”
“Io per te non esisto più, mi devi lasciare in pace, HAI CAPITO???”
Non erano i dialoghi che mi immaginavo mentre la aspettavo immobile appoggiato al muro della casa di fronte alla sua.
Qualche volta esageravo proprio e poi mi sentivo in colpa; non mi facevo vedere per un po’, per giorni, a volte per settimane.
Una volta mi fece picchiare dal fratello, io prendevo i calci e i pugni e non reagivo, mi lasciavo cadere per terra, mi arrivò un calcio in faccia, mi ha fatto male sul serio, mi alzai e scappai via.
Per un bel po’ me ne sono rimasto a casa e ho cominciato a telefonare, mettevo giù appena rispondeva, oppure lasciavo un messaggio vuoto in segreteria.
Quando ero particolarmente giù chiamavo ogni due minuti, venti, anche trenta volte di fila.
Poi mi ordinavo una pizza ai quattro formaggi e restavo imbambolato davanti alla tv a mangiare e piangere.
Non lo so perché ho passato poco meno di due anni così.
Non lo so perché ero ossessionato da Rita, perché volessi tornare insieme a lei e perché cercassi di farlo in quel modo così sbagliato, malato.
Avevo bisogno di aiuto, di un amico, di una ragazza che mi facesse uscire da quel circuito chiuso in cui ero entrato, da quel labirinto nel quale percorrevo sempre la stessa strada e perciò non potevo vedere una via d’uscita.
Sempre che ce ne fossero, non tutti i labirinti ne hanno una.
Amici non ne avevo e non volevo averne, le altre donne per me non esistevano e dopo un po’ ripresi anche ad aspettarla alla sera sotto casa sua, guardavo e basta, come a dire: sono qui.
Quella sera quindi me la ricordo molto bene, è stata la sera più bella della mia vita.
La cosa che nessuno capirà mai è che io non vorrei cambiarla quella sera, nemmeno per evitare otto anni di galera, nemmeno per evitare i prossimi che verranno.
Rita quella sera arrivò dalla parte opposta rispetto al solito, io non ero preparato, non me lo sarei mai aspettato, quindi me la ritrovai a pochi centimetri che mi parlava e mi prese alla sprovvista.
Feci un balzo e non capii nulla di quello che mi stava dicendo.
“Marco, vuoi salire da me? Questa sera ho bisogno di compagnia.” ripeté Rita, quasi bisbigliandomi nell’orecchio.
Mi sentii come una bollicina di champagne d’annata quando qualcuno finalmente stappa la bottiglia.
Venni schizzato in orbita e feci ritorno sulla terra, sul marciapiede, di fianco a Rita, era passato un tempo che non saprei valutare ma Rita era ancora lì ad aspettarmi.
Sorrideva, io ero frastornato e imbarazzato così mi prese per mano e insieme salimmo nel suo appartamento.
“Sono più di due anni che aspetti Marco.”
Io riuscivo a balbettare qualche parola ma nulla di comprensibile.
“Forse anche io stavo aspettando da anni. Ora ho capito che ho bisogno di te, che ti desidero, molto più di quando stavamo insieme.”
Nemmeno nei miei sogni avevo mai immaginato una cosa del genere, la mia ormai era una ossessione, non andavo sotto casa sua perché sperassi veramente in qualcosa, ci andavo per abitudine, come se fosse un rito, come vanno a messa i cattolici, tutte le domeniche, senza avere un vero perché.
In quel momento la desideravo come mai l’avevo desiderata prima, come nessun uomo ha mai desiderato nessuna donna.
Almeno questo è quello che ricordo di quello che sentivo allora.
Lei mi chiese di farle vedere quanto la desideravo e io non sarei stato più in grado di fermarmi nemmeno se lo avessi voluto.
Bevemmo molto champagne, mangiammo qualcosa solo per stuzzicare altri appetiti.
Non tutto quello che successe quella notte io me lo ricordo perfettamente, so che facemmo sesso più volte, in modo animale, feroce, con una bramosia, con una violenza, con un desiderio, che io non avevo mai conosciuto in me e non avrei mai nemmeno potuto immaginare in lei.
All’improvviso, dopo diverse ore, lei si alzò dal letto dove io stavo riposando stordito, come in stato di trance.
Rita era in piedi, mi guardò dall’alto, dal fondo della stanza e mi disse: “Ora te ne devi andare.”
In quella frase c’era un’altra Rita, fredda, glaciale, il tono della voce, il corpo nudo rigido, come quello di una statua, lo sguardo freddo, due occhi che luccicano nella penombra della stanza.
Non era una richiesta, non era un invito: era un ordine.
Se me l’avesse detto con quel tono la prima volta che l’avevo importunata, dopo che ci eravamo lasciati, sicuramente non l’avrei mai disturbata una seconda volta.
Ma erano state tante volte, erano passati tanti mesi e ora io ero felice e non feci caso a come me lo disse.
“Ci vedremo ancora, vero Rita?”
“Certo Marco, ci vedremo ancora, non ti preoccupare” mi disse, con un mezzo sorriso.
La mattina dopo restai a letto fino a mezzogiorno, ero in uno stato di estasi tale che mi chiedevo spesso se erano ricordi veri quelli che affollavano la mia mente, oppure erano sogni ed ero completamente in preda al delirio.
Non era ancora sera quando sentii suonare il campanello, mi brillarono gli occhi, non aspettavo nessuno, poteva essere solo Rita.
“Arrivo, arrivo” urlai di nuovo felice dopo i tanti dubbi di quella giornata.
“Lei è Marco Scamarda?” la Rita che mi stava facendo quella domanda era vestito da carabiniere.
Come mi aveva promesso ci rivedemmo varie volte, in tribunale, fino a quando la mia sentenza divenne definitiva.
Il processo fu lungo, fui condannato in primo grado a cinque anni, Rita sbraitava di scandalo sui giornali e in televisione.
Lei si ricordava quella serata in modo molto diverso da come me la ricordavo io.
Rita raccontò che io l’avevo costretta con la forza a salire nel suo appartamento, che l’avevo drogata, che l’avevo violentata varie volte, in modo sadico.
C’era il mio sperma dentro di lei.
C’erano lividi sul suo corpo.
C’erano lesioni.
C’era della droga nel vino e nel suo corpo, ma nel mio non c’era.
C’erano testimoni che dicevano che la stavo importunando da mesi.
C’erano tante cose.
Io non avevo nulla, dicevo solo la verità: lei aveva architettato tutto solo per farmela pagare.
Nessuno poteva credere alla mia versione.
Io non ci avrei creduto.
Nemmeno il giudice e la giuria ci credettero, nemmeno per un istante.
Alla fine mi diedero il massimo della pena, dodici anni, una sentenza esemplare come si dice.
Dopo otto anni, questa mattina sono tornato libero.
I giornali scriveranno che cercavo vendetta.
Niente di tutto questo è vero, nessuna vendetta, non sono un assassino, non sono violento, non sono malato.
Strangolerò Rita perché voglio giustizia ma nessun tribunale me la potrà mai dare, non ho nessun altro modo per ottenere giustizia che pagarla con la mia libertà.